Dai semi al cibo - PARTE I - Il Seme
Salento Km0 lavora da 10 anni per un obiettivo ambizioso: costruire una nuova filiera del cibo, che possa migliorare le condizioni ambientali, sociali ed economiche del territorio. Per far questo, intendiamo agire su tutte le fasi che portano dal seme al cibo. Vogliamo raccontarvi la nostra filosofia proprio percorrendo queste tappe, ragionando sui modelli che stiamo costruendo.
Iniziamo dal SEME.
IL SEME
“Un albero è la lentissima esplosione di un seme”, diceva Bruno Munari, condensando in una visione tutto il mistero e il fascino del seme. Il dizionario lo definisce “il corpo riproduttivo delle piante Spermatofite; costituito da un involucro esterno (tegumento), dall'embrione della futura pianta e da sostanze nutritive”, ed esso altro non è che una galassia di glucidi, lipidi e proteine in grado di rispondere chimicamente alle condizioni ambientali attivando la vita, lo sviluppo completo di organismi vegetali. Il seme è dunque l’origine della vita, anche di quella animale e umana, strettamente dipendenti da quella vegetale.
Pensare che una quercia secolare una volta fu una piccola ghianda, fa venire in mente ciò che Lao Tzu scrisse nel Tao Te Ching quasi 3.000 anni fa:
“Un albero il cui tronco si può appena abbracciare comincia con un minuscolo germoglio. Una torre alta nove piani comincia con un mucchietto di terra. Un viaggio di mille miglia comincia sotto la pianta dei tuoi piedi”.
Per secoli, gli uomini hanno compartecipato alla tessitura lenta e minuziosa della grande tela della vita su questo pianeta, selezionando, conservando e riproducendo i semi delle piante coltivate, scegliendo quelle che, grazie a naturali e occasionali variazioni genetiche, mostravano caratteristiche preferibili nei disparati contesti ambientali e climatici in cui coabitavano con l’uomo, o addirittura ottenendo tali caratteristiche grazie ad incroci e impollinazioni realizzati ad hoc. Le caratteristiche tanto ricercate, non avevano altro scopo se non quello di assicurare il sostentamento, con i migliori risultati, in condizioni ambientali differenti, talvolta sfavorevoli. L’uomo, dunque, ha cercato di soddisfare la necessità di cibo attraverso la diversificazione delle risorse: un lavoro compiuto da milioni di contadini, in migliaia di anni, in ogni parte del mondo. La sopravvivenza delle comunità, è stata dunque da sempre legata ai semi e al loro patrimonio genetico.
Charles Darwin, ne "L’origine delle specie", scriveva:
“Nelle opere di orticoltura è espressa grande sorpresa per gli splendidi risultati ottenuti dai giardinieri con materiali così scadenti; tuttavia il processo è stato semplice ed è stato eseguito in maniera quasi inconscia, fino al risultato finale. Esso consisteva nel coltivare sempre le migliori varietà conosciute, seminarle e, non appena compariva una varietà lievemente superiore, selezionarla, e così di seguito[1]”.
È così che, nel corso dei millenni, si è partiti da piante selvatiche progenitrici e si è arrivati a piante coltivate con caratteristiche del tutto differenti. Per fare alcuni esempi: il pisello è stato “istruito” a non aprire i baccelli per espellere i semi; le pannocchie di mais sono arrivate a misurare fino 40 centimetri, contro quelle selvatiche lunghe meno di 2 centimetri; le mandorle dolci hanno perduto il contenuto di cianuro presente in quelle amare; il grano ha raggiunto dimensione e numero di chicchi impensabili per la sua forma selvatica.
Salvatore Ceccarelli, genetista di fama mondiale impegnato nello sviluppo di sistemi partecipativi di miglioramento genetico scrive:
“A mano a mano che nei millenni uomini e donne continuavano a spostarsi, (…) ciascuno selezionava le piantine ritenute migliori e più adatte al proprio terreno e al proprio clima. Da tutto questo lavoro (…) sono uscite quelle che noi oggi chiamiamo varietà antiche, o vecchie varietà, o varietà locali, o varietà tramandate. Per il modo in cui sono state ottenute, scegliendo piante diverse da cui il seme veniva raccolto e poi mescolato, queste varietà non erano uniformi, ma fatte da piante che, pur assomigliandosi, non erano affatto identiche, come invece sono quelle moderne (che, per intenderci, sono come i gemelli monozigoti nell’uomo). Quindi, non solo le varietà erano diverse da contadino a contadino, ma all’interno dello stesso campo le piante di queste varietà erano diverse le une dalle altre”[2].
Se la spinta è stata quella di diversificare, moltiplicare, perpetuare specie con caratteristiche differenti in grado di resistere a possibili avversità climatiche, a fitopatologie etc., intorno agli anni ‘40 è iniziato un processo completamente opposto, che ha sostituito questa visione con la tendenza all’omologazione delle specie coltivate. L’erosione genetica comincia con la cosiddetta Rivoluzione verde, un processo di modernizzazione dell’agricoltura basato sull’utilizzo di poche varietà, sulla produzione intensiva in monocolture, sulla meccanizzazione, sullo sfruttamento pesante dei suoli reso possibile da fertilizzanti chimici e prodotti fitosanitari, sull’irrigazione permanente.
Questi cambiamenti nell’approccio produttivo, sono paralleli all’emersione di una più vasta trasformazione sociale, che ha di fatto determinato la scomparsa delle cosiddette “civiltà contadine” e ha globalizzato questo approccio produttivistico. Se da una parte la Rivoluzione Verde ha generato un incremento della produzione per l’economia di mercato, dall’altra ha accentrato questa produzione nelle mani di pochi, rendendola dipendente dai grandi gruppi proprietari contemporaneamente di sementi, prodotti chimici e brevetti.
Se analizziamo le conseguenze di questo approccio, ci rendiamo conto che ha determinato la perdita dei saperi locali agricoli legati agli habitat, dipendenza da irrigazione, dai prodotti di sintesi, dalle macchine e dai combustibili fossili, erosione del suolo, inquinamento, dipendenza economica dalle grandi multinazionali dell’agricoltura e la perdita della biodiversità locale. In alcune aree come Asia, Africa e America latina, queste dinamiche hanno provocato veri e propri disastri umanitari.
“Negli ultimi decenni, il mercato mondiale del seme, che vale miliardi di euro, progressivamente si è concentrato in poche mani. Oggi il 75% di quel mercato è controllato da otto grandi multinazionali (…) e questo oligopolio si sta sempre più rinforzando. Cosa significa ‘controllo del mercato mondiale del seme’? Significa che sul mercato, si trovano pressoché solo i semi prodotti da quelle società multinazionali. Ora: se i contadini non hanno scelta sui semi, allora le persone, a loro volta, non avranno scelta sul cibo e finiranno per comprare solo – per esempio – gli stessi pomodori: sia che li acquistino nel negozio vicino casa, al supermercato, in un’altra città, o addirittura in un altro Paese”[3].
Se i semi, prodotti in laboratorio in condizioni standard - che non rispondono alle condizioni ecologiche delle centinaia di aree geografiche di coltivazione in cui vengono utilizzati - generano piante che hanno bisogno di pesticidi e fertilizzanti chimici per svilupparsi, le comunità locali sono veramente libere di coltivare ciò che vogliono? Che benefici reali traggono dall’abbandono delle cultivar selezionate da generazioni? Come può essere garantita la sicurezza alimentare da piante che non sono in grado di rispondere ai veloci cambiamenti climatici e allo sviluppo di patogeni sempre più resistenti ai fitofarmaci?
Le comunità contadine di tutto il mondo, dall’Asia, all’Africa, all’America latina, all’Europa, stanno cominciando un processo di decostruzione di queste dinamiche. Recuperare le antiche varietà locali e salvarle dall’oblio è il modo migliore per ricostruire il corpus di conoscenze legato al buon utilizzo delle risorse, anche se, a causa di una profonda frattura generazionale e al mutamento di condizioni sociali e culturali, questi processi di recupero non sono sempre facili. Gran parte della biodiversità mondiale è già scomparsa per sempre. Un processo del genere, è attuabile solamente se condiviso e partecipato, se le conoscenze fluiscono e vengono contaminate e arricchite dai membri della comunità. Tutto ciò implica un cambiamento nelle relazioni sociali, dove la cooperazione e il mutualismo prendono il posto della competizione.
Le realtà che fanno parte della Rete di Salento Km0, conoscono e custodiscono le varietà locali. La quasi totalità di esse, è custode di una o più cultivar, delle loro tecniche di coltivazione e di conservazione. In molti casi, sono esse stesse che ricercano e recuperano i semi tradizionali: la Cicoria bianca di Tricase di Giuseppe Battocchio, il Cucummaro di San Donato di Lagorosso, il Vivaio della Biodiversità di Casa delle Agriculture, il Carciofo tricasino di Masseria Nonno Tore, i Gelsi dell’Agriturismo Bernardi, il Pisello di Vitigliano di Giuseppe Bene, il Pisello riccio di Sannicola di Corrado Losavio, il Pomodoro di Morciano di Sante Le Muse, i cereali di Agriturismo Salos e Coop Casa delle Agriculture, i vitigni di Cantina Supersanume Dei Agre, le varietà frutticole di Azienda Mustich e Melusina, e tanti tanti altri.
Il diritto “a consumare in base alle priorità culturali e a criteri di sicurezza, è stato reso illegale dalle nuove regole del commercio. (…) Questo totalitarismo alimentare può essere bloccato soltanto da una mobilitazione comune per la democratizzazione dei sistemi alimentari. Dobbiamo riprenderci il diritto di conservare i semi e la biodiversità. Il diritto al nutrimento e al cibo sano. Il diritto di proteggere la terra e le sue diverse specie”[4].
Francesca Casaluci
[1] Charles Darwin, L’origine delle specie, trad. it. Boringhieri, Torino 1967, pp 106-7
[2] Salvatore Ceccarelli, Mescolate contadini mescolate, Pentàgora, Savona 2016, p 41
[3] Ibidem, pp 26-7
[4] Vandana Shiva, Vacche sacre e mucche pazze, Roma, DeriveApprodi 2001, p. 38