Antropologia e comunità rurali: il caso del Fagiolo di Frattura

Lo svuotamento, la perdita di biodiversità e l’erosione del “saper fare” delle comunità, sono solo alcuni degli aspetti che accomunano le campagne e le aree interne d’Italia. Le comunità rurali si confrontano da decenni con questa lenta emorragia, una mutazione spesso troppo veloce e determinante, difficile da invertire. Esistono tuttavia esperienze, modelli e progetti di riappropriazione delle campagne, che si coagulano spesso intorno al recupero della biodiversità agricola, ai metodi produttivi eco-compatibili e alla costruzione di legami mutualistici tra le comunità locali. In alcuni casi, più maturi, si assiste alla definizione di vere e proprie filiere, che riescono ad essere ricostituite e chiuse in contesti storicamente poveri di mezzi e infrastrutture.

Per indagare quali meccanismi si azionano nella rinascita delle comunità rurali, abbiamo intervistato Anna Rizzo, antropologa, impegnata da dieci anni nella missione “Fluturnum” che l'ha portata in Abruzzo, a Frattura, frazione di Scanno, nel cuore della Valle del Sagittario. Un lavoro di ricerca per il recupero del patrimonio materiale e immateriale nell’ambito del quale, è stato attivato un lungo processo di valorizzazione di una cultivar locale, il Fagiolo bianco di Frattura, che ha avuto diverse ripercussioni sulla comunità locale.

«La missione – racconta Anna - nata nel 2010 e guidata dall’archeologa Francesca Romana del Fattore, ha portato una squadra di specialisti a Scanno e Frattura, a 1.300 metri, sospesi sul Lago di Scanno. Io sono diventata responsabile dell’aspetto antropologico. Ho cominciato da subito a lavorare con i pastori, che rappresentano maggiormente l’economia arcaica di quella zona ma, dopo quattro anni, ho deciso di spostare l’attenzione a Frattura, perché mi sembrava retorico parlare di pastori in un luogo conosciuto perlopiù per la pastorizia. Di Frattura, essendo una frazione, pensavo fosse un distaccamento di Scanno, invece no. Bisogna dire innanzitutto che di Frattura esistono pochissime fonti scritte. È un insediamento antico, terremotato nel 1914 e poi considerato abbandonato, anche se sostanzialmente non lo è mai stato, perché di fatto i fratturesi – che abitano a Frattura Nuova - ogni giorno, tutto l’anno, vanno a Frattura Vecchia, per un semplice motivo: perché lì hanno i loro orti». Qui il Fagiolo bianco di Frattura ha un posto d'onore, occupando buona parte della produzione nella stagione primaverile ed estiva.

Il lavoro sul Fagiolo di Frattura, è stato un mezzo, e non il fine, di un percorso atto alla riattivazione di aspetti economici e sociali dormienti che rischiavano di scomparire. Continua Anna: «Il progetto agricolo è solo uno degli elementi di un percorso enorme di studio che va dalla mobilità arcaica, alla storia dell’emigrazione e del terremoto, della transumanza etc. Come antropologa, il fagiolo è stato un pass par tout che mi ha dato accesso alle famiglie, alle persone e alla loro quotidianità. Nel mese di settembre, tutto il paese si ricopre interamente di fagioli messi a seccare: uno scenario che non potevo sottovalutare. E ho cominciato ad andare negli orti e lavorare con i fratturesi, aiutandoli senza fare troppe domande».

Ancora oggi la selezione dei fagioli viene fatta a mano, sui baccelli più sani, che producono più semi (fino ad otto), che non ha subito attacchi di patogeni o parassiti. La coltivazione avviene in maniera naturale, senza input chimici; l’acqua è presa direttamente dalla sorgente. «Sono orti di famiglia, tramandati da padre in figlio. Dopo il terremoto e il baraccamento, i fratturesi hanno trasformato la zona chiamata “l’Aruccia” (piccola aia), dove per almeno quindici anni ci sono state le baracche post-terremoto, in una zona di orti, gli orti sorgono lì».

Dal punto di vista botanico, quello di Frattura è un fagiolo bianco rampicante, che si differenzia per la forma ovoidale, il color avorio lucido e la pasta morbida e delicata, sicuramente derivato da quello aquilano, che però insediandosi nel territorio di Frattura, ha sviluppato caratteristiche proprie. Se viene riprodotto in altri contesti, le sue caratteristiche uniche cambiano: cresce meno oppure ha meno resa. A Frattura, invece, le piante sono enormi e molto produttive. Il fatto che il fagiolo adesso riesca ad essere raccontato in maniera così precisa, non è un’azione di “marketing”, ma il frutto di dieci anni di ricerca scientifica. «Dal punto di vista identitario, come in ogni ricerca etnografica, devi porre delle domande. Nel caso specifico, la domanda che mi ha permesso di incardinare tutta la ricerca è stata “perché a Frattura non se ne sono andati tutti?” Dal 1915, dopo il terremoto, la comunità locale ha subito la proscrizione obbligatoria, l’epidemia di spagnola e di morbillo, la seconda fase migratoria italiana. Il declino demografico arriva al culmine oggi che sono rimasti solo in 20 residenti. Mancano negozi, farmacie, panificio, non c’è niente. Perché non sono andati via tutti?

Chi è sopravvissuto e rimasto è gente che riesce ad autoprodursi tutto, a fare manutenzione del paese, gente che ha scelto la ruralità. Parlare del fagiolo, dunque, è anche una “scusa” per raccontare il divario sociale e culturale che spesso c’è all’interno di contesti marginali, in cui si riproduce solamente uno schema di subalternità e di vessazione. Questo è per me la cosa veramente più importante: non solo il recupero agricolo, che pure conta, ma non deve arrivare alla musealizzazione».

Negli anni, il progetto di valorizzazione del Fagiolo di Frattura ha ottenuto anche l'inserimento nell'Arca del Gusto: «Attraverso la missione, abbiamo raccolto molta documentazione e, nel 2014, l’abbiamo inviata a Slow Food che dopo qualche mese ci hanno comunicato di essere rientrati nell’Arca del Gusto, che censisce prodotti dal grande valore identitario e in via di estinzione. Da quel momento mi è sembrato opportuno fare un discorso più articolato con la comunità; mi sembrava giusto che la cosa fosse gestita dai fratturesi e non da me. Abbiamo cominciato a fare una serie di incontri settimanali che si chiamano “Riunioni di paese”; incontri con i fagiolari ma anche incontri di comunità su argomenti specifici. Mi interessava inoltre che i fratturesi capissero come portare avanti progetti, come fare richieste e interfacciarsi con le amministrazioni, anche per migliorare l’illuminazione pubblica, avere la pulizia del cimitero, etc. Mi interessava che loro imparassero le forme istituzionali che gli permettessero di far rispettare i loro diritti. Non solo parlare di fagioli, quindi, ma dare risposte concrete a come si organizza un paese».

E anche l’economia locale, ha iniziato pian piano ad attivarsi intorno a questo prodotto. È nato anche il Festival “Non sono solo un fagiolo, dal nome eloquente, legato ai beni immateriali a cui, ogni anno, è associata la rigenerazione di uno spazio: la scuola, il forno, il lavatoio. E anche i giovani si sono avvicinati a questo progetto, come i ragazzi di Scanno che hanno recuperato un orto abbandonato grande come un campo di calcio, o altri che stanno puntando molto sulla coltivazione del fagiolo.

L’antropologo in processi di questo tipo può avere un ruolo importante, che consiste «prima di tutto nel mettere in atto la sua professionalità, il suo metodo e la sua disciplina. Nel mio caso, ho semplicemente documentato, poi mi sono sentita di dover consegnare degli strumenti: come fare un database, tenere un archivio, interfacciarsi con un’amministrazione, tenere una riunione, etc. Insomma rendere la comunità competente e capace di mantenere la propria autonomia e l’identità che sceglie di volta in volta di rappresentare».

Le comunità rurali rappresentano oggi contesti molto interessanti, in cui si attivano e sperimentano dinamiche originali strettamente legate al mantenimento dei beni comuni, all’offerta di servizi ecosistemici e alla sperimentazione di relazioni comunitarie. Frattura diventa quindi emblema di ricostruzione, a partire dal patrimonio materiale e immateriale. L’Italia è piena di tante “Frattura”, da ri-abitare. A volte la chiave di tutto questo è “solo” un fagiolo.

 

Francesca Casaluci